Testimonianze di Claudio Baglioni

Claudio Baglioni

Claudio Baglioni

Claudio Baglioni e l’anima del Big

«La fede, io la vivo a modo mio», mi spiega Claudio Baglioni citando forse involontariamente uno dei suoi successi più conosciuti. E lo dice col sorriso rilassato di chi ha trovato un giusto equilibrio interiore e ha acquisito, strada facendo, la piena consapevolezza di una maturità artistica e personale. Una sicurezza umana e professionale che non ha del tutto cancellato (per fortuna, aggiungo io) la «triste speranza» e il pudore dei sentimenti più intimi del giovane cantautore schivo e riservato che avevo incontrato, per una piccola-grande intervista, una sera d’agosto del 1975 ad Agordo, nelle Dolomiti bellunesi, dove teneva un concerto nella piazza del paese, al quale, tra l’altro, ha dedicato una canzone.

Tutti e due in «tournée». Lui, già con la qualifica di «mito delle teenager» a 24 anni per Piccolo grande amore e Sabato pomeriggio. Io, di un anno indietro e inviato di un quotidiano milanese, a caccia di interviste ai protagonisti dell’estate. «La fede va conquistata giorno dopo giorno», continua Baglioni, che con l’ultimo lavoro teatrale, ConcertOpera, ha trasmesso un senso di profonda e apostolica spiritualità al pubblico, «non la considero un dono per sempre. Ma in divenire. Una volta avuto, bisogna alimentarlo. Come si fa con una pianticella giovane e fragile».

Già averla però è un gran bel vantaggio.
Sì, e mi sento fortunato. Ma è il punto di partenza non di arrivo. C’è sempre la paura di perderla.

Come per il successo?
Il paragone è improponibile.

Facile per Lei che, di professione, fa il mito.
Non esageriamo. Sono solo un artista popolare.

Eh dai!
Va beh, ho un certo seguito.

Un seguito anche internazionale.
Parto per un tour negli Stati Uniti e in Canada. Ma quando i riflettori si spengono torno solo un uomo.

Torna solo un uomo o un uomo solo?
Torno me stesso.

A quando la chiamavano Agonia?
Ogni tanto ripenso a quei giorni per restare con i piedi per terra.

Difficile davanti a migliaia di fans adoranti.
Ormai ci sono abituato. Non scambio l’applauso dei fans con il potere. Trasmetto emozioni e ne ricevo. Tutto qui. Non mi sono mai sentito un padreterno.

In che rapporti è con Quello vero?
Sono un cattolico praticante, anche se non pratico con continuità.

In pratica?
Vado a Messa quando posso. Non tutte le domeniche come mi è stato insegnato da bambino.

Da chi?
Dalla mia famiglia, di origini umbre e molto religiosa. Sia mio padre sia mia madre mi hanno insegnato a pregare, andare a Messa la domenica mattina e all’oratorio al pomeriggio.

S’annoiava?
Giocavo a pallone col frate cappuccino che faceva l’arbitro. Non solo. Ho fatto il chierichetto ma solo per un giorno e mezzo.

Crisi mistica?
Avevo sbagliato a suonare il campanello durante una funzione molto importante.

Addio oratorio.
No, mi sono riscattato. Da adolescente sono stato per tre anni catechista. Insegnavo ai ragazzi delle elementari e andavo anche ai ritiri spirituali.

Che cos’è rimasto di quei giorni?
Il senso della preghiera. La necessità di rivolgermi verso l’Alto. Preghiere diverse dall’Avemaria che m’insegnava mia madre. Però, quando mi sento giù e sono in crisi, guardo verso il Cielo.

Ha un santo di riferimento?
Ne ho due. Uno l’ho ereditato.

Ha ereditato un santo?
Mia madre era devota a sant’Antonio da Padova e anch’io da piccolo lo pregavo.

E quello personale?
Nel 1972 ho interpretato la canzone del film di Zeffirelli Fratello sole sorella luna dedicata a san Francesco. Da quel momento, il Poverello d’Assisi è diventato il mio santo in Paradiso.

Invece in terra?
Ho molti amici. Ma ho sempre contato solo sul mio lavoro. Qui i santi non c’entrano.

E San Remo?
Capitolo chiuso. Anzi, mai aperto.

Per la gara?
Per fedeltà. Da ragazzo, ho vinto il Festival di San Felice da Cantalice l’oratorio di Centocelle dove ho esordito con la mia chitarra. Lì, è iniziata la mia carriera musicale. Non posso tradire San Felice.

Un altro insegnamento di famiglia?
Di mio padre. Che mi spiegava che la fede va sempre abbinata alla carità e alla speranza. E poi mi ha trasmesso i princìpi dell’onore e del rispetto per il prossimo.

Li ha trasmessi anche a Suo figlio?
Integrali. Giovanni è cresciuto in un ambiente cattolico.

Lo è tutt’ora?
è molto più praticante di me. Non perde mai la Messa la domenica e mi riprende perché sono poco osservante.

Le dà anche consigli artistici?
è stato un atto di coraggio da parte sua fare lo stesso mio mestiere. Andava a confrontarsi inevitabilmente con un nome già affermato. Lui però fa un altro tipo di musica, ma ci scambiamo spesso dei consigli utili. Lavorando assieme, abbiamo rafforzato il nostro legame.

Gli aveva dedicato una canzone, Avrai, quando è nato.
Era stata molto apprezzata.

E come padre?
Chissà se posso dire la stessa cosa. Non so darmi un voto. Ho fatto quello che ho potuto e che credevo giusto. Comunque, un dato è certo: comunichiamo molto.

Tratto dal sito: Edizoni Ares

Claudio Baglioni risponde al Papa: Quel sottile filo di luce che passa sotto la porta

Non so se ciò che faccio si possa definire arte. Non lo garantiscono il metodo, né i risultati. E non spetta a me dirlo. Ma è grazie a ciò che faccio che ho potuto incontrare Sua Santità, Benedetto XVI, insieme ad altri uomini accomunati dal misterioso appellativo di artisti. Uomini che, credo, convivano con il mio stesso dubbio. Perché l’arte è ricerca. E il dubbio è il primo motore della ricerca. Dubbio che, quindi, non è negazione. Ma, al contrario, presupposto, preludio, anticamera della verità. Anticamera nella quale trascorre la vita di ogni uomo.

E, tra tutti gli uomini, credo che coloro i quali vengono chiamati artisti siano tra quelli che attendono più vicini alla “porta”. Con i sensi dell’interiorità, avvertono i silenzi, i suoni, le voci e i rumori che provengono dalla “stanza accanto”. Vedono un filo di luce filtrare da sotto la porta. Scorgono segni e riflessi che cercano di mettere a fuoco, decifrare, ordinare – non a caso questa è una delle mille, affascinanti, radici della parola “arte” – e rendere visibili.

Una condizione che è, allo stesso tempo, esaltazione e sofferenza. Perché il dono di una sensibilità non ordinaria, porta con sé il peso di non ordinarie responsabilità. Lo ricordava Paolo vi, quando diceva che la missione degli artisti è “carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità”. Rendere visibile l’invisibile, appunto. Nessuno sa da dove vengano le note di una melodia, le parole di un romanzo, i passi di una coreografia; i tratti e i colori di una tela, le liriche di una poesia; le forme di una scultura o i volumi di una architettura; le immagini di una foto o le inquadrature di un film. Né sappiamo chi o cosa le porti dentro di noi. Tutti, però, sappiamo dove queste cose portano noi. Cambiano. Sollevano. Elevano. Non solo ci consentono di violare il limite orizzontale di questo nostro pellegrinaggio nell’esistenza, ma suggeriscono un nuovo orizzonte. Orizzonte verticale. Dal quale l’anima è, evidentemente, chiamata. E al quale essa, per sua natura, tende. Da sempre. Per sempre. “La storia dell’umanità – ha ricordato il Papa – è movimento e ascensione”. L’arte è parte di quella storia. Parte importante. Movimento e ascensione contengono, però, il rischio della caduta dell’uomo. Rischio che “incombe sull’umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male”. In questo senso l’arte ha la responsabilità di essere, allo stesso tempo, frutto e seme di bellezza. Chi semina bellezza, raccoglie bellezza. Bellezza autentica, naturalmente. Profondità, non superficie. Sostanza, non forma. Quella bellezza che l’uomo ha, di volta in volta, identificato con verità, virtù, bene. Bellezza che è antidoto alla disperazione. Come ha ricordato Sua Santità, quando ha sottolineato il “legame profondo tra bellezza e speranza”. Legame fondamentale. Soprattutto oggi, in un mondo che ha un bisogno estremo di bellezza. Quella bellezza che, come diceva Dostoevskij, sarà l’unica a salvare il mondo e senza la quale l’umanità non potrebbe vivere. Perché, se l’arte è davvero tale, riesce a colmare la distanza, sempre troppo grande, tra il presente come è e come, invece, potrebbe e dovrebbe essere. A rivelare il confine tra imperfezione e perfezione. Tra abisso e infinito. Non solo mostrando le strade da non battere, ma anche illuminando quelle da seguire.

E, soprattutto, rivelando, nel comporsi a rotta di queste ultime, il valore di una prospettiva. Dimostrando che ciò che si immagina o si teme impossibile, impossibile non è. Se l’uomo guarda, vede. E all’arte spetta – accanto ad altre “arti”, naturalmente – il compito difficile, ma irrinunciabile, di mostrare ciò che non riesce o, talvolta, si rifiuta di vedere. Non solo dare senso e valore al suo cammino orizzontale – regalando, ad esempio, più umanità all’umanità – ma dimostrando che la meta è fine, ma non sempre è “la” fine. Spesso, anzi, essa è inizio. Nuovo inizio. E suggerendo all’uomo, attraverso il piccolo mistero della creatività, l’idea di aprirsi a sondare il mistero, ben più grande, della Creazione.

Per la musica il compito è ancora più delicato. Non perché esista una classifica di merito tra le arti. Che, evidentemente, non c’è. Ma perché l’immediatezza della musica, la sua universalità, la facilità, rapidità e vastità della sua diffusione, il fatto di valicare qualunque confine, di essere l’unica lingua che tutti sono in grado di comprendere e parlare – anche chi ne ignora completamente vocabolario, grammatica e sintassi – e di esercitare un richiamo particolarmente forte sulle generazioni giovani, la rendono una tra le arti più amate e ascoltate. Il che impone a chiunque le dia voce un supplemento di coscienza, autenticità e verità. Oltre all’obbligo, che vale per tutti gli artisti, di non dimenticare mai di essere, come scriveva Paolo vi, “i custodi della bellezza nel mondo”. Parole che stordiscono e fanno tremare i polsi a tutti noi, piccole anime di confine, che tendiamo l’orecchio e speriamo di cogliere e saper interpretare dignitosamente i fragili segnali che ci manda quel sottile filo di luce che passa sotto la porta.

Tratto da: © L’Osservatore Romano – 2 dicembre 2009